Scritto dal NonnoPapà cioè BisNonno (classe 1930), ripescando i suoi ricordi di quando era ragazzo, su richiesta di nipoti e bis nipoti, del tipo “Nonno come vivevi quando c’era la guerra???” nel Dicembre 2018 come regalo di Natale per Nipoti e BisNipoti . . . oggi, lo doniamo a voi, amici.
Mio padre, fu considerato “Disperso” sul fronte Russo durante la controffensiva russa del dicembre 1942. Dopo la morte di mia mamma, il 15 giugno 1943. La mia famiglia (composta ormai solo dai miei 3 fratelli e da me) era dispersa.
Dal giugno del ’45, quando terminò la II Guerra Mondiale, le truppe alleate anglo-americane occupavano l’Italia sconfitta. Il pane era razionato (solo 250 grammi al giorno per persona), com’era razionato tutto il resto: dall’abbigliamento alle scarpe, dalla carne ai formaggi e latticini vari.
Io, 15 anni, ero in Orfanotrofio, a Bergamo, e potevo, finalmente finire la scuola. Mio fratello, rientrato dal “lavoro obbligatorio” dalla Germania, abitava presso uno zio, con mio cugino e la nostra sorellina piccola (3 anni), mentre l’altra sorella (8 anni) era in un orfanotrofio femminile.
Questo era la situazione, quando la zia (sorella di mio padre), invitò, mio fratello, mio cugino e me, a trascorrere il Natale da lei in Alto Adige, dove era sfollata con la sua famiglia, a causa della guerra
Non fu difficile ottenere il permesso di assentarmi dall’Orfanotrofio per le feste natalizie.
Quando ne fu informato, lo zio incaricò mio fratello (il più grande ed esperto di noi ragazzi) di organizzare il viaggio. Poi, ci riunimmo, noi tre e lo zio, per parlarne. Furono stabiliti i giorni, la spesa e le modalità del viaggio.
Lo Zio si complimentò con mio fratello e mio cugino. Io non contavo nulla, restavo il “bambino”, mi trattavano come il fratellino piccolo: “Tu sta zitto e fai solo quello che ti diciamo noi”, questo era il loro “comandamento” e io dovevo solo obbedire
Si decise di partire il 22 dicembre, dalla stazione di Brescia con il treno che da Milano arrivava a Verona.
A Verona saremmo saliti sul treno che ci avrebbe portato a Bressanone, la nostra seconda tappa.
A Bressanone avremmo dovuto prendere il treno che ci avrebbe portato a Brunico e da lì saremmo ripartiti con un trenino “a scartamento ridotto” per Campo Tures, dove abitava nostra cugina con i suoi genitori.
Sembrava un viaggio perfetto. Saremmo giunti a destinazione il 23 dicembre, l’antivigilia di Natale.
Quel mattino mi sedetti sul sedile vicino al finestrino e feci tutto il viaggio ammirando il paesaggio che scappava via in fretta. Ero emozionato, era il primo viaggio così lungo che facevo, era anche il primo viaggio che facevo senza un adulto. Mio fratello era più grande di me, ma non era un adulto, secondo me.
Il treno arrivò a Verona in orario e io pensai di poter vedere il celebre balcone di Giulietta, ma mio fratello mi disse che non saremmo usciti dalla stazione.
Il treno che dovevamo prendere arrivò con un po’ in ritardo ma il Capotreno ci rassicurò: saremmo arrivati in orario a Bressanone.
Il viaggio si svolse senza incidenti, ma quando arrivammo a Bressanone era già buio e il treno per Brunico era già partito
Ivan si recò alla biglietteria per avere delle informazioni. Quando tornò, ci comunicò che dovevamo pernottare a Bressanone e che solo il giorno dopo saremmo potuti partire.
Per la notte ci sistemammo nella sala d’aspetto: i due ragazzi grandi si accomodarono su una panchina, mentre io ebbi un posto privilegiato, sul tavolino. La stanchezza ebbe il sopravvento, e mi addormentai subito.
Al mattino dopo, ci svegliammo presto e quando la biglietteria aprì gli sportelli, mio fratello si precipitò a comperare i biglietti per Bressanone. Dopo un po’ lo vedemmo venire presso da noi, con una espressione preoccupata. Con un fil di voce sussurrò: «Niente treno, oggi è domenica e i treni sono tutti fermi, bisogna aspettare lunedì.»
Ci guardammo confusi, uno con l’altro per un po’, alla fine Ivan decise per tutti e con voce sicura ci disse:
«Andremo a Brunico a piedi, preparatevi a camminare. Spicciatevi, fate quello che dovete fare, tra poco dobbiamo partire. Forse riusciamo a prendere il treno per Campo Tures che parte da Brunico verso le diciassette, non vorrei perderlo e restare a Brunico tutta la notte»
Lasciammo le valige nel magazzino delle spedizioni. Ce le avrebbero spedite appena possibile, sarebbero arrivate il 27 o, al massimo, il 28 di dicembre. Mettemmo negli zaini tutto quello che ci poteva serviva di prima necessità.
Mio fratello si caricò anche il mio zaino sulle spalle e partimmo pieni di entusiasmo, fiducia e determinazione. La nostra marcia era iniziata bene e continuò per un paio ore senza difficoltà, ma ci accorgemmo che sul bordo della strada, non c’era nessuna trattorie o posti di ristoro. I paesi erano lontani dalla strada, non volendo perdere tempo, continuammo imperterriti a marciare. L’allegria aveva lasciato il posto al silenzio.
Mio fratello sperava di poter incontrare un automezzo cui poter chiedere un passaggio, ma il traffico era inesistente. Passava solo qualche vettura con militari americani a bordo, ci superavano senza nemmeno degnarci di uno sguardo.
Quando fummo più o meno a mezza strada, la fortuna ci fu benigna e dopo una curva trovammo un’osteria tirolese, circondata da pini carichi di neve. Ripartimmo di nuovo pieni di speranza.
Eravamo stanchi e facemmo gli ultimi chilometri trascinando le gambe a denti stretti con il fiatone e, finalmente, arrivammo a Brunico. Entrammo nella Stazione Ferroviaria e ci sdraiammo, sfiniti, sulle panchine della Sala d’Aspetto. Probabilmente mi addormentai, perché ricordo che mi svegliai con mio fratello che mi stava spingendo verso il treno. Ero ancora mezzo addormentato quando mi adagiò sul sedile della carrozza del trenino, e mi addormentai di nuovo.
Mi svegliai con mia cugina che mi stava scuotendo, dicendomi: «Dai Paolo, svegliati sei arrivato, se riesci a camminare la casa non è lontana, mia mamma e mio papà ci stanno aspettando.» Eravamo arrivati!
Arrivati a casa della zia ricordo che continuava a piangere e accarezzarmi. C’erano tante domande. Ci rivedevamo dopo quasi 3 anni di guerra, da quando lo zio (originario del Tirolo austriaco) aveva pensato che per la sua famiglia fosse meglio stare in Tirolo, avevamo un sacco di cose da raccontarci.
Mio fratello e mio cugino raccontarono aneddoti sui vari parenti e le nostre vite a Bergamo. Mio cugino ed io spiegammo allo zio la nostra situazione scolastica. Mio fratello spiegò agli zii come fosse difficile trovare un lavoro in quel tempo e come avesse coinvolto nella ricerca tutti gli amici e conoscenti.
Raccontammo di noi e di Bergamo, dei parenti e degli amici. Io non parlai molto, solo quel tanto che bastava per spiegare agli zii dell’esperienza (per certi versi positiva) alla Casa dell’Orfano e della mia permanenza attuale, all’Orfanotrofio di Bergamo, dove vivevo male e mangiavo peggio. Questo mi fruttò una fetta supplementare della torta della zia. Cenammo in allegria con dei cibi che non mangiavo da cinque lunghi anni. Sulla tavola c’erano pane bianco (pane di di frumento), companatico a volontà, dolcetti e frutta che non vedevo da anni.
Io ero stanchissimo e ciondolavo dalla stanchezza e dal sonno, mi addormentai sulla poltrona del salotto della zia. Quando finalmente lo zio ci portò all’albergo dove avevamo una camera tutta per noi, Virgilio mi caricò sulle spalle e mi mise a letto senza che mi svegliassi. Al mattino dopo, faticai a realizzare dove fossi. Avevo dormito bene e a lungo. Il letto era soffice, non aveva il enzuolo sopra e nemmeno le coperte, solo un caldo piumone di penne d’oca, soffice, leggero e caldissimo. Non avevo mai visto prima un letto così strano.
Mi sveglia per primo la mattina dopo, mi sentivo pieno di vita, avevo riposato bene e i miei quindici anni pretendevano di vivere la nuova situazione alla grande.
La zia aveva preparato una ricca, abbondante e dolcissima colazione.
A me sembrava un sogno poter mangiare tante cose così buone; dolci squisiti, e bere del latte caldo, dopo sei mesi che non lo gustavo. All’Orfanotrofio, a colazione, ci servivano un brodo vegetale, con dei pezzi di patate che galleggiavano nella brodaglia senza sale,
Quando finimmo la colazione la cugina Marì ci accompagnò a visitare il paesino, ci fece conoscere alcune delle sue amiche. Mio fratello e mio cugino continuavano a conversare con le amiche di Marì. Uno sfoggiava tedesco imparato durante la guerra, l’altro si comportava da gran signore parlando in italiano da primo della classe.
A me sembrava tempo sprecato parlare con delle ragazze, le consideravo solo una seccatura. Avrei preferito andare sui campi di neve con la slitta, come mi aveva promesso mia cugina, ma si decise che lo avremmo fatto il giorno dopo.
La zia ci servì tutte cose particolari, era giorno di “vigilia”, perciò niente carne. Fummo serviti i ravioli ripieni di formaggio, la Mosa, tipica zuppa tirolese, di farina bianca, cannella e burro fuso. Formaggi dolci e salati, a scelta. Mangiammo ciambelle farcite di mele e, a fine pranzo, frutta secca, noci e nocciole e fichi secchi, i classici frutti invernali.
Ci organizzammo per il pomeriggio. Secondo la tradizione austro/tedesca, lo zio preparava l’Albero di Natale in segreto e noi dovevamo aspettare in cucina che ci chiamasse per l’accensione delle candeline (rigorosamente di cera) dopo che aveva finito l’addobbo dell’abete. Mia cugina ci insegnò una canzone in tedesco, per fare contento lo zio che aveva piacere che si ripetesse la tradizione dei cori natalizi. Ci imbrogliavamo con le parole in tedesco e io, venivo preso in giro perché ero stonatissimo.Era un’atmosfera davvero allegra, con tante risate e con il calore della famiglia che non avevo più sentito da tanto tempo.
Quando lo zio ebbe finito l’addobbo natalizio dell’albero, ci fece entrare e finalmente vidi per la prima volta quanto fosse bello un Albero di Natale. Era bellissimo, maestoso, con tanti festoni che pendevano dai rami e palline di vetri colorato alternate e dolci e caramelle legati ai rami. Le candele illuminavano la sala, in penombra, a terra su di un tappeto, c’erano i pacchi dei regali per tutti noi.
Noi quattro ragazzi cantammo la canzone natalizia appena imparata: “Tannenbaum” . . . Oh Tannenbaum, wie treu sind deine Blätter! (O albero! o albero eternamente verde.”) che fece commuovere lo zio Lodovico. La zia servì la cioccolata calda (era da quando, tre anni prima, ero stato portato alla CASA dell’Orfano di Ponte Selva che non bevevo la cioccolata calda), furono servite anche delle deliziose frittelle dolci.
Lo zio ci disse che dopo la Messa di mezzanotte avremmo aperto i regali e avremmo fatto festa. La festa passo con i tre cugini “grandi” che confabulare tra loro, mentre io giocavo a dama con lo zio.
Prima di mezzanotte ci vestimmo ben imbottiti, la notte era serena ma gelida. Ci incamminando verso la chiesa, situata fuori del paese.
La Messa fu tutta in tedesco, preghiere, canti e predica. Fu una cerimonia che mi lasciò incantato, per la partecipazione del cittadini, tutti compunti e partecipi, cantavano e pregavano con calore, sempre in tirolese.
Alla fine il sacerdote salutò tutti i capi famiglia, fermo sulla porta della Chiesa. Lo zio, “il dottor” Kaaserer, fu ossequiato da tutti, e noi tre fummo al centro della curiosità delle ragazze tirolesi, come se fossimo dei marziani!
Finimmo la serata con lo spumante e un classico dolce tirolese, lo strudel. Poi, senza aver aperto i regali, andammo a letto e dormimmo fino a mattina inoltrata. Fu una serata stupenda e dopo cinque anni di guerra avevo ritrovato il calore del Natale e della Famiglia, grazie alla zia Carolì e allo zio Lodovico.
Il mattino dopo, Natale, quando, finalmente furono svegli, lavati e “stirati”, andammo di corsa a casa della zia. Dovevamo aprire i pacchi dei regali, e questo m’incuriosiva parecchio. Ero eccitatissimo.
Mia cugina era ancora addormentata, ma lo zio Lodovico, che aveva compreso la nostra curiosità, ci invitò ad aprire i regali. Ricordo solo il mio regalo: un magnifico maglione di lana bianca, con dei bei disegni: delle figure di cervi e di edelweiss in lana blù. Infilai il maglione e la zia costatò che mi stava alla perfezione. Lo indossai per tutto il tempo che restammo dagli zii, le tolsi solo quando ritornai a Bergamo, lo affidai alla zia, avevo paura che all’Orfanotrofio me lo rubassero.
Finalmente si svegliò anche mia cugina e ci fu una baraonda che si può facilmente immaginare, 4 cugini che si erano ritrovati dopo mesi e mesi di guerra, poche lettere che non sempre arrivavano.
Finì cosi il bel giorno di Natale in quell’anno, dopo tre anni da orfano passati lontano dai miei famigliari.
Quelle vacanze mi sembravano un sogno. Da cinque anni (anni di guerra) non mangiavo quello che mi cucinava la zia, ma il meglio di tutto era il pane. Potevo mangiarne quanto ne volevo e mi sembrava un dolce, quel buon pane bianco.
Le giornate trascorrevano tra ruzzoloni con la slitta, battaglie a palle di neve e merende a base di pane, burro e zucchero.
La sera i cugini e mio fratello, restavano in cucina ad ascoltare i dischi di musica americana che mio cugino aveva portato da Bergamo, mentre lo zio ed io ci sfidavamo “all’ultima dama”, ma vinceva sempre lui. Poi tutti a dormire in quella bella cameretta dell’albergo, tutta per me (anche se eravamo in tre). Da tre anni dormivo in dormitori, in montagna di quindici letti e a Bergamo, all’orfanotrofio, i letti del dormitorio si erano raddoppiati, erano trenta. Dormire solo con i miei due parenti mi sembrava un sogno, ma sapevo che sarebbe terminato presto.
Una sera, lo zio Lodovico ci comunicò che aveva telefonato lo zio Giovanni che sarebbe venuto, con la zia, in auto, dopo Capodanno, per riportarci a Bergamo. La notizia ci fece piacere, avremmo risparmiato un faticoso viaggio in treno.
E venne la sera di Fine Anno. Lo zio Lodovico ci offrì una festa al ristorante dell’albergo. Trascorsi una serata che non avrei mai immaginato. La grande sala, svuotata dai tavolini era addobbata di festoni natalizi e in un angolo un alto abete, pieno di candele accese, creava un’atmosfera di grande effetto. Lo zio aveva prenotato un tavolo, mangiai del cibo che non avevo mai visto. Conobbi la cucina tirolese in quelle sere del periodo di Natale del 1945: ravioli, salsicce, selvaggina arrosto e maiale arrostito. Cibi che da cinque anni non avevo più visto né, tanto meno, mangiato.
La festa era una vera festa, il 1946 era lontano solo un paio d’ore. Quando ci fu l’ultima conta dei secondi, allo scadere dell’anno, la folla esplose in un coro, in tedesco, e noi seguimmo il battimano che accompagnava il canto, la festa finì in una bevuta di birra mescolata a grappa.
Io, come al solito fui escluso dal brindisi, con la solita scusa che ero ancora troppo giovane per bere birra con la grappa.
Lo zio Giovanni e la zia arrivarono a Campo Tures, due o tre giorni dopo Capodanno. Avevano fatto il viaggio con la loro vettura, un furgoncino FIAT: in pratica, la famosa “Topolino”, ma furgonata.
Io avevo sperato di poter festeggiate l’Epifania a Campo Tures, ma fui deluso. Lo zio Giovanni doveva essere a Bergamo perquel giorno e aveva deciso di partire il giorno 5 di gennaio. Le strade lo preoccupavano, l’anno era iniziato con una bella e copiosa nevicata.
Il furgoncino dello zio, disponeva di due sedili e di un vano per il trasporto merci varie. Siccome i due sedili erano occupati dagli zii, noi tre “sventurati” ragazzi ci rannicchiammo nel vano merci. Facemmo tutto il viaggio di ritorno rannicchiati e infreddoliti. Le strade dissestate, ci deliziarono con le loro buche, mettendo a dura prova le nostre giovani ossa.
Il riscaldamento era ad “aria condizionata”, cioè, condizionata dal freddo che avvolgeva la strada e tutta la campagna innevata.
Fu un viaggio tremendo che non ho mai dimenticato. Dieci ore di viaggio tra sobbalzi e spifferi di aria gelida.
Finalmente arrivammo a Bergamo. Era notte fonda. Ad aspettarci c’era la Teresa, la “donna” (cioè la domestica) della zia. Aveva preparato una cena fredda e dopo aver mangiato, lo zio decise che non sarei andato all’orfanotrofio fino alla sera dopo. Mi fece dormire nel letto di mio fratello.
Fui felice perché si trascorse la festa dell’Epifania tutti assieme.
Il mio rientro all’Orfanotrofio chiuse il ciclo natalizio.